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Il vocabolario delle conversazioni silenziose

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  • Linea strategica Inclusione sociale
  • Tempo di lettura 4 minuti

Agli incontri del nostro Progetto Alzheimer, insieme a familiari e caregiver, partecipano anche operatori professionali e assistenti.

«Come si chiama?»
«Auguste.»
«Cognome?»
«Auguste.»
«Come si chiama suo marito?»
«Ah, mio marito?»
«È sposata?»
«Con Auguste.»
«Signora D.?»
«Sì, sì, Auguste D.»

È il difficoltoso colloquio avvenuto il 26 novembre 1901 tra Alois Alzheimer, psichiatra tedesco, e la sua paziente Auguste D., il primo caso documentato di una malattia che più avanti si sarebbe chiamata per l’appunto di Alzheimer.

Il commento che redige lo psichiatra nella cartella clinica è emblematico: “Alla fine, non era più possibile alcuna forma di conversazione con la malata”.

Chissà cosa ne pensano Silvia o Viola di questa nota redatta da un medico.
Viola e Silvia sono entrambe assistenti, anche se il termine che loro stesse usano parlando del loro lavoro è quello più comune: badante.

Sono due delle tantissime donne che si prendono cura dei nostri familiari, soprattutto se anziani e non più autosufficienti.

Ma prendersi cura di una persona colpita dalla malattia di Alzheimer, accompagnandola lungo il suo cammino di progressivo e irreversibile deterioramento, è un ruolo che va ben oltre la semplice assistenza a ore.

Viola e Silvia le incontriamo alla fine di uno degli incontri realizzati nell’ambito del nostro Progetto Alzheimer presso il Centro Madre Teresa di Calcutta di Padova, a cui partecipano anche familiari e caregiver.

“Le quattro A della scienza medica e l’aggettivo di Viola.”

L’Alzheimer è definita la malattia delle quattro A: amnesia (la perdita significativa di memoria); agnosia (l’incapacità di identificare correttamente gli stimoli, riconoscere persone, cose e luoghi); aprassia, (l’incapacità di compiere correttamente alcuni movimenti volontari, come ad esempio vestirsi) e afasia (l’incapacità di formulare e comprendere i messaggi verbali).

Date queste premesse, com’è possibile stabilire una qualsiasi relazione e forma di comunicazione con una persona colpita da questa forma di degenerazione?

Viola, 47 anni, minuta e scattante, capelli corti e abbigliamento sportivo, rumena, da 11 anni in Italia. È talmente frizzante, estroversa ed espansiva, da far pensare che potrebbe riuscire a far parlare anche un pesce. Infatti, trovare il modo di comunicare con i malati, di capirli e farsi capire, per lei pare essere un problema minore.

«La difficoltà maggiore, semmai, è il primo incontro, quando tu entri nella loro vita. Quello sì che è un momento difficile, e molto delicato. Devi riuscire a capire la persona, le sue abitudini, le sue capacità, a che stadio si trova della malattia. È una cosa che richiede tempo, continuità e pazienza. Una volta che il contatto l’hai stabilito, poi loro piano piano, un po’ alla volta, si fidano di te».

“Loro” sono le tante persone malate di Alzheimer che Viola ha incontrato in questi anni, assistendole sia in casa che in strutture residenziali. Per la maggior parte sono state donne, delle quali però non pronuncia mai il nome. Un anonimato che non ha nulla a che fare con i vincoli imposti dalla legge sulla privacy. Piuttosto, è una forma di riguardo e di rispetto.

Perché qualsiasi sia il nome della persona a cui Viola fa via via riferimento, la formula che usa è sempre la stessa: “la mia signora”. Le viene così, spontaneamente. E ogni volta che dice l’aggettivo “mia” indica il suo cuore con la punta delle dita, e tu capisci che la vita di quella signora è davvero in buone mani. Perché alle quattro A dell’Alzheimer Viola ne ha aggiunta una quinta: affetto. Che è cura, nel senso più ampio del termine.

“Devi essere tu ad entrare nel loro mondo, devi imparare a capirlo.”

Se Viola è una veterana dei corsi del Progetto Alzheimer, che ha frequentato fin dal primo ciclo organizzato nel 2009, Silvia è altrettanto convinta dell’utilità di questa iniziativa. Il tema dell’incontro formativo di oggi, presentato da un team di logopediste, verte sulla disfagia e prevede anche delle dimostrazioni e prove pratiche.

Gli psicologi definiscono “procedurale” questa modalità di apprendimento, spesso più utile di quella dichiarativa. Ce lo conferma anche Silvia, capelli biondi, occhi grandi, fisico asciutto, rumena con un passato di archivista.

«Questi incontri al Centro Madre Teresa di Calcutta per me sono importantissimi. Ho imparato tante cose su questa malattia, che è bruttissima. Ho imparato a non sbagliare, nemmeno involontariamente. Qui mi dicono come devo comportarmi nei momenti più difficili, mi spiegano come devo fare in tante situazioni, ma soprattutto mi fanno vedere cose che posso mettere in pratica. Così io mi sento più sicura, e la mia tranquillità posso trasmetterla anche a chi sto seguendo».

Riuscire a dare alla persona malata anche il giusto supporto emotivo, mette in gioco tutta la sensibilità di Silvia, che quasi con senso di colpa ammette: «Quando non riesco a calmarli, mi sento impotente. Allora devo ricorrere alle gocce e ai tranquillanti, ma questo per me è un grande, grande dispiacere».

L’inquietudine, l’aggressività, i moti di rabbia o di ostilità immotivata, sono manifestazioni sempre più frequenti con il progredire della malattia. Gestirle non è mai facile, anche perché «non si ha a che fare con dei bambini, che si possono sgridare o magari punire. Devi essere tu ad entrare nel loro mondo, che non è mai lo stesso. Devi imparare a capirlo, di volta in volta. E ci riesci solo se hai pazienza, con amore e calore».

Pazienza, amore, calore. Sembra una formula magica. Forse perché proviene dal vocabolario interiore di Silvia. Che ha imparato a parlare con i malati di Alzheimer anche senza parole: con una carezza, un sorriso, uno sguardo, un abbraccio.

PROGETTO ALZHEIMER

Realizzate in collaborazione con Casa Madre Teresa di Calcutta di Sarmeola di Rubano (PD) e con l’Azienda Ulss 5 Polesana, le attività del Progetto Alzheimer hanno la finalità di aiutare le persone a gestire l’assistenza al malato, tutelando il benessere di chi lo assiste (familiari, caregiver, operatori) e migliorando le condizioni in cui le cure vengono prestate.