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Dottorati di ricerca: ecco perché promuoviamo i giovani talenti

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  • Linea strategica Ricerca e sviluppo
  • Tempo di lettura 7 minuti

Come procedono le attività degli universitari che hanno vinto una borsa di studio post-lauream con il nostro bando Dottorati di Ricerca? Lo abbiamo chiesto a una geologa e a un ingegnere dei sistemi informatici.

Passione per il sapere e voglia di far fare un passo in avanti alla conoscenza umana: i giovani che decidono di intraprendere un dottorato di ricerca dedicano tempo ed energie allo studio, mossi dalla volontà di scoprire qualcosa di nuovo su come funziona il mondo. A volte questo significa diventare estremamente verticali su un’area specifica, al punto da diventare tra i migliori a conoscerla.

Ne sa qualcosa Chiara Anzolini, brillante (è il caso di dirlo…) geologa del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, il cui PhD è stato possibile grazie al sostegno del nostro bando Dottorati di Ricerca. Un sostegno del quale siamo particolarmente orgogliosi e che ci ha regalato una gran bella soddisfazione, in quanto la sua tesi di dottorato è stata insignita del Premio per Tesi di Dottorato 2018 dalla Società Italiana di Mineralogia e Petrologia.

Tanto per darvi l’idea di quanto sono profonde (di nuovo, è il caso di dirlo…) le sue conoscenze, aggiungiamo che la ricercatrice, malgrado la sua giovane età, è già una habitué delle premiazioni accademiche, comprese le più ambite. Per la sua tesi di laurea in Scienze mineralogiche con riferimento ad applicazioni petrologiche, infatti, nel 2015 Chiara è stata premiata dall’Accademia nazionale dei Lincei, ricevendo il riconoscimento dalle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante l’Adunanza Solenne di chiusura dell’anno accademico della più prestigiosa istituzione scientifica italiana.

Questa ragazza originaria di Tolmezzo ha già fatto tappa nelle Università di mezzo mondo. Il dottorato lo sta svolgendo presso il Department of Earth and Atmospheric Sciences dell’University of Alberta, in Canada. Ma grazie a un suo breve rientro a Padova per partecipare alla cerimonia di consegna del diploma, riusciamo ad incontrarla da questa parte dell’Oceano… L’appuntamento è al Dipartimento di Geoscienze, dove con il suo volto acqua e sapone, in jeans e T-shirt, può tranquillamente essere scambiata come una delle tante studentesse presenti nell’edificio.
Qual è il suo ambito di ricerca? Ce lo illustra lei stessa.

Chiara, un gioiello di geologa

«Studio i diamanti per comprendere la geologia terreste. Sono il mezzo che abbiamo per analizzare direttamente i minerali che arrivano dal “cuore” della Terra, dove non siamo in grado di arrivare. L’uomo andrà sicuramente su Marte, ma per capire com’è fatto il nostro pianeta al suo interno, i diamanti sono la migliore fonte di informazioni di cui disponiamo».

Nulla a che vedere con quelli di gioielleria, i diamanti che interessano a Chiara sono quelli grezzi.
Con parole di estrema semplicità e chiarezza, ci semplifica la questione con una spiegazione “a misura di bambino”: «Quando i diamanti si accrescono, inglobano dei pezzi di roccia fusa circostante, il “mantello terreste”. Al termine della loro crescita mantengono al loro interno inclusioni di minerali. Siccome non reagiscono con altri materiali e sono molto resistenti, i minerali inglobati al loro interno vengono trasportati intatti in superficie e ci forniscono dei campioni inalterati della composizione interna della Terra che possiamo analizzare in due modi: guardando attraverso la loro trasparenza, oppure rompendoli per estrapolarne i piccoli pezzi di minerali».
«Durante il mio dottorato» aggiunge con una punta di orgoglio «ho studiato in particolare i diamanti più rari, chiamati “super-profondi”, per cercare di capire quale fosse la reale profondità della loro provenienza».

Quelle di Chiara sono ricerche di base, che possono avere ripercussioni di notevole portata. «Quello che studiamo in questo laboratorio» afferma «consente a ricercatori di altre discipline di capire fenomeni dinamici che avvengono in superficie, come ad esempio terremoti ed eruzioni vulcaniche».

Il PhD le ha dato anche l’opportunità di intraprendere collaborazioni scientifiche, partecipare a conferenze internazionali, relazionarsi con più modalità operative e modelli di studio. Una possibilità che secondo Chiara non dovrebbe limitarsi al mondo accademico, ma espandersi in ogni settore professionale. «Chiunque, in qualsiasi ambito operi, dovrebbe poter fare esperienze formative in Paesi diversi dal proprio: è un arricchimento importantissimo, sia dal punto di vista lavorativo che umano».

E Il suo futuro dove lo immagina? «Sto molto bene all’estero, ma mi piace anche l’idea di poter riportare le mie competenze in Italia». E su questo tema aggiunge un ragionamento di particolare importanza e attualità: «Il fatto che nel nostro Paese non ci siano posti di lavoro post-dottorato e invece all’estero sì, per certi aspetti è un luogo comune. Da noi non ci sono posti disponibili per tutti in ambito accademico, ed è ovvio. Ma lo stesso “sbarramento” avviene anche nelle Università straniere. La differenza è che negli altri Paesi un dottore di ricerca è richiesto anche dalle imprese che, riconoscendo l’importanza di studi avanzati, ricercano figure espressamente con questo titolo di studio. Mentre da noi no, al massimo ti chiedono la laurea. Credo invece che anche in Italia le aziende, sia private che pubbliche, dovrebbero orientarsi verso questa opportunità. Le nostre conoscenze, in fin dei conti, andrebbero tutte a loro vantaggio». Come non darle ragione?

Prima di lasciarla ai suoi impegni, le poniamo un’ultima domanda volutamente un po’ frivola. La risposta è di conferma: sì, anche per lei come per Marylin Monroe, diamonds are a girl’s best friend… Anzi, di più: «L’ho scritto anche nell’intestazione della mia tesi di dottorato».

Niccolò, un ingegnere da mettere in nota

Cosa ci fa un ingegnere, dottorando presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, nel Museo di Scienze archeologiche e d’Arte del Dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Padova? Lo chiediamo direttamente a lui, Niccolò Pretto, che incontriamo per l’appunto nel museo che ha sede a Palazzo Liviano.
Qui è esposto un reperto rarissimo (ne esistono solo tre al mondo): il Flauto di Pan o Syrinx, dal nome della ninfa che secondo il mito non ricambiò l’amore di Pan. Il prezioso strumento è giunto a Padova con i materiali della missione di scavo di Carlo Anti nel villaggio di Tebtynis, nell’oasi del Fayûm in Egitto, compiuta tra il 1930 e il 1936.

Oltre ad un restauro effettuato in anni recenti, il flauto composto da canne palustri di lunghezza a scalare è stato oggetto del progetto di ricerca “Archaeology & Virtual Acoustics. A pan flute from ancient Egypt” che ha messo in gioco più competenze disciplinari e più ambiti universitari non solo padovani: il Dipartimento dei Beni Culturali, appunto, ma anche il Centro di Sonologia Computazionale e lo I.U.A.V. di Venezia.
Nel team di esperti c’era anche Niccolò, che ha gestito lo sviluppo di un’installazione interattiva che ricrea virtualmente lo strumento, ne comunica diversi aspetti, e anche di più…

Oggi le applicazioni di realtà aumentata, di realtà virtuale o le app mobili sono sempre più diffuse nei musei, consentendo quella che gli addetti ai lavori definiscono “fruizione esperienziale di uno spazio espositivo”. Una tendenza che vale ancor di più in ambito musicale, in quanto il visitatore può “comprendere” il valore di uno strumento acustico, ancor più se antico, solo suonandolo. Che è cosa solitamente impossibile, sia perché le politiche di conservazione dei musei non sempre rendono accessibili i preziosi artefatti, sia perché la stessa fragilità o lo stato di corruzione di questi oggetti li rendono di fatto inutilizzabili.
Così, anche per superare l’impasse, sono entrati in gioco gli studi ingegneristici di Niccolò.

Mentre il flauto di Pan se ne sta chiuso e inavvicinabile nella sua teca, la postazione interattiva permette proprio di sperimentarne le sonorità originali attraverso il soffio e il tocco, consentendo così l’esplorazione acustica. Il suono dell’antico strumento si ricrea infatti proprio così: in un soffio che produciamo noi stessi avvicinandoci alla postazione, o con un touch sull’immagine che riproduce sullo schermo le singole canne palustri.

La vetrina multimediale consente anche altre due possibilità conoscitive: l’esplorazione visiva, permettendo di cogliere anche i dettagli costruttivi più nascosti del flauto, e l’esplorazione dettagliata, dando modo al visitatore di avvicinarsi in maniera approfondita ai diversi aspetti legati allo strumento stesso: la sua storia, l’iconografia, la musicologia.

Con i progetti “Rewind & Remind” e “Nawba Recognition” la ricerca non è mai la stessa musica.

Se blowflute e touchflute vi sembrano ancora poca cosa, sappiate che gli interessi di ricerca di Niccolò non si fermano qui. «Una parte del mio lavoro» ci dice destreggiandosi tra computer, cavi, amplificatori e altre strumentazioni non meglio identificabili del Laboratorio di conservazione e di restauro dei documenti sonori presso il Centro di Sonologia Computazionale «consiste nella ricerca e sviluppo di metodologie e metodi IT innovativi per preservare, utilizzare e valorizzare un patrimonio musicale che altrimenti andrebbe perduto. Ma qui ci occupiamo anche di Nawba Recognition». Vale a dire?

«La musica arabo-andalusa è modale, eseguita in forma di suite di temi strumentali e vocali diversi legati dal medesimo modo e dallo stesso schema ritmico in una sequenza di tempo crescente, i nawba per l’appunto. Noi abbiamo realizzato una delle prime analisi computazionali che ne permettono il riconoscimento automatico, basandoci su un corpus di 125 ore che riunisce le culture musicali tradizionali di Tunisia, Algeria e Marocco».

Probabilmente riscontrando nei nostri occhi uno sguardo tra l’attonito e il confuso, Niccolò aggiunge con benevolenza: «In questo caso di tratta di ricerca pura, basata su modelli di algoritmi un po’ complessi». Quindi, se anche voi non siete propriamente degli esperti di analisi computazionale, fate come noi: fidatevi di Niccolò e dei suoi studi di alta formazione.

Chiara e Niccolò sono solo due degli oltre 600 dottori di ricerca che hanno usufruito delle borse di studio assegnate dal 2004 al 2017 attraverso il nostro bando dedicato espressamente a loro.

Giovani di talento, impegnati in più campi della conoscenza, fortemente motivati e soprattutto entusiasti di quanto hanno modo di apprendere nel corso dei loro studi di specializzazione. Durante i quali, giustamente, sembrano voler mettere in scacco una volta per tutte la solitudine leopardiana “degli anni di studio matto e disperatissimo” imparata da tutti noi sui banchi di scuola, a favore di rapporti di portata sempre più interdisciplinare ed internazionale.

IL BANDO DOTTORATI DI RICERCA

Promosso in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova, il bando Dottorati di Ricerca sostiene 47 borse di studio triennali, di cui 15 riservate a studenti internazionali, anche con l’obiettivo di valorizzare, potenziare e qualificare le iniziative di formazione alla ricerca di livello post-lauream offerte dai Corsi di Dottorato dell’Ateneo patavino.
Le borse di dottorato sono suddivise in tre aree tematiche:

Matematica, Scienze Fisiche dell’Informazione e della Comunicazione,
Ingegneria e Scienze della Terra (18 borse di cui 6 per studenti stranieri)

Scienze della Vita (18 borse di cui 6 per studenti stranieri)

Scienze Umane e Sociali (11 borse di cui 3 per studenti stranieri).